La maestria del restauro tessile - Accademia d'impresa
Aggiornato il: 14 Aprile 22

La maestria del restauro tessile

unʼintervista a Katia Brida di Stefania Santoni*


Hai mai sentito parlare del soffitto di cristallo?
È un fenomeno sociale che riguarda noi donne: è quellʼinsieme di barriere e ostacoli che ci impedisce di realizzare le nostre ambizioni, di arrivare a quelle posizioni che stanno ai vertici e che sembrano fatte apposta per noi. Ma ogni volta che ci avviciniamo ecco che si allontanano. O meglio: noi facciamo un passo indietro. Le vediamo e le riconosciamo (ci separa soltanto un soffitto trasparente!), ma niente da fare. Ci facciamo da parte. Forse, quel soffitto, dovremmo romperlo. Dopotutto si tratta di cristallo, non di cemento armato. 

Sicuramente una donna che quel soffitto lʼha rotto è Katia Brida, talentuosa restauratrice tessile, unica specialista del settore nel territorio trentino: la sua maestria è rara, precisa e feconda; apporta nutrimento a quei tessuti antichi che raccontano la nostra storia, le radici cui apparteniamo. Katia restituisce la vita a ogni frammento tessile che passa per le sue mani e lo fa conservandone la memoria, preservandone lʼidentità originaria. 

Qualche giorno fa ho avuto il piacere di incontrarla nel suo laboratorio: mi ha raccontato la sua storia, un percorso affascinante fatto di strade in salita e di significative gratificazioni. 

Da dove è cominciato tutto, Katia?
Il mio amore per il restauro tessile nasce a scuola, allʼIstituto dʼArte Fortunato Depero di Rovereto: ero iscritta al corso di tessitura quando ebbi una sorta di folgorazione durante le lezioni di restauro degli arazzi tenute da unʼinsegnante francese molto affascinante (alta, dalla vita sottile, con lunghi capelli grigi: me la ricordo ancora!). Da questʼamore per gli arazzi, decisi di iscrivermi allʼIstituto per lʼArte e il Restauro di Firenze, a Palazzo Spinelli. Vivendo a Firenze, ebbi lʼopportunità di fare uno stage a La Galleria del Costume di Palazzo Pitti. A seguire lavorai a Milano per una grandissima azienda che produceva tappeti per musei prestigiosi come il Poldi Pezzoli, ma anche per nomi di celebrità come Mike Bongiorno e Costacurta. Avevo sotto la mia guida 8 ragazze più grandi di me con le quali fu difficile collaborare: ero molto giovane, avevo solo 21 anni. Per loro non era facile riconoscere la mia leadership. Purtroppo, come sai, spesso noi donne invece di fare rete ci mettiamo le une contro le altre e facciamo il gioco del patriarcato. Inoltre il tipo di restauro praticato presso questʼazienda era molto lontano dalla mia visione e impostazione: per me il restauro deve essere sempre reversibile e avere il rispetto totale della materia prima, aspetto che qui non era tenuto molto in considerazione. Così dopo qualche mese tornai al Pitti dove mi assunsero per la riapertura. Ricordo ancora la meravigliosa mostra di Ferrè con lʼallestimento di una fontana nel mezzo del giardino: un sogno. Cʼera anche mia madre in questʼoccasione: riesco a vedere ancora adesso i suoi occhi lucidi, pieni di orgoglio e di commozione per il mio lavoro. Dopo lʼesperienza al Pitti, mi recai a Volterra per unʼaltra collaborazione con un laboratorio privato, dove rimasi per circa due anni fino a quando lo studio vinse lʼappalto per le bandiere dellʼAltare della Patria. Andai quindi a Roma. Un bel percorso, insomma, che ho potuto sostenere anche grazie al supporto di due genitori che mi hanno sempre lasciata libera di scegliere.

E quando sei tornata in Trentino? 
Era il 2005. Non è stato semplice e ho ricevuto tante porte chiuse. Ma non mi sono mai persa dʼanimo: ho perseverato, insistito e scavato; ho coltivato la mia passione iniziando da piccoli lavori per approdare a incarichi più significativi. Il primo tra questi è stato il restauro per i tre Depero di Itas Assicurazioni, tre grandissimi arazzi. Conobbi Benedetti, il presidente di allora, che mi chiese di fare lʼoperazione di restauro a Trento, nella sede dellʼItas: non voleva che i Depero fossero spostati. Io ero emozionatissima per questʼincarico prestigioso e al tempo stesso molto preoccupata! Sentivo sulle mie spalle una responsabilità enorme. Da qui sono cominciati i lavori più belli e interessanti: penso a quello di alcune uniformi. Due di queste erano di soldati dellʼImpero Austro Ungarico del 1916, ritrovate sopra il ghiacciaio Presena, in Val di Sole (sopra casa mia!). Erano ragazzi giovanissimi e biondi: te lo posso dire con certezza perché abbiamo trovato i capelli. Il tessuto (era loden, un panno di lana fittissimo) aveva assorbito tutto: il corpo si era letteralmente impregnato nel tessuto. Quando una fibra assorbe una cosa, non la puoi eliminare. Mai. Perché il tessuto conserva la memoria, le tracce più antiche
Per capire meglio questo processo di restauro pensa alle uniformi come a un puzzle: tutte le cuciture di cotone erano tranciate, ogni pezzo era frammentato. Fondamentale in questo caso è stato lʼaiuto di Mara Scanagatta, la mia collaboratrice, e di Nicola Cappellozza, un archeologo che ha meticolosamente ricostruito la forma dellʼuniforme, delle giacche e dei cappotti. È stata unʼesperienza molto forte da un punto di vista umano: con il nostro restauro, abbiamo ridato dignità a questi soldati, a questi ragazzi così giovani, troppo giovani per morire. Ci siamo occupate anche di altre due uniformi, di soldati italiani, morti sotto una valanga. Anche in questo caso, i resti dei tessuti hanno raccontato la storia dei loro corpi. Quando entravo nel laboratorio, durante i giorni di pioggia, mi sembrava di sentire lʼodore della morte provenire da quelle divise: mi scendevano le lacrime ogni volta che pensavo alle vite strappate di questi giovani soldati. Allʼinterno di una di queste giacche abbiamo trovato il santino di una Madonna; grazie a delle ricerche, siamo riusciti a individuare il nome della persona, del soldato: si trattava Rodolfo Beretta, nato nel 1898, le cui spoglie sono state finalmente ricondotte agli eredi. Immagina la loro commozione nel rivederlo. Il mio è davvero un lavoro del cuore, una pratica che accarezza le corde dellʼanima: è un florilegio di emozioni costanti che si generano dallo studio e dalla storia di ogni tessuto e di chi lʼha indossato. 

Cʼè un lavoro fuori dallʼordinario di cui vorresti raccontarmi?
Sì, del restauro di un aereo! Un intervento di messa in sicurezza dellʼAnsaldo A1 1916. Fu un intervento molto complesso da un punto di vista tecnico e di logistica: le ali erano di seta, un materiale organico decisamente delicato. Che esperienza straordinaria!

Che cosa significa per te restaurare, Katia?
Il restauro per me è un gesto di cura e di guarigione: è un atto di estremo rispetto verso chi si trova in uno stato di malattia e sofferenza. A me restauratrice spetta il compito di individuare il genere di "malattia": a seconda di chi trovo davanti, devo capire come comportarmi, come curarlo in modo da permetterli di vivere ancora un poʼ e dignitosamente. Quasi tutto o tessuti che restauriamo qui in laboratorio sono in seta o di materiale organico: comprendi la fragilità e caducità degli oggetti che trattiamo. Forse per questo noi restauratori e restauratrici indossiamo sempre un camice bianco, come se ci trovassimo in una sorta di sala operatoria per salvare dei pazienti! 
Quando mi accingo a restaurare entro in uno stato di estraneazione totale: riesco a stare attenta e con-centrata anche per 12 ore. È qualcosa che mi viene da dentro, che appartiene alla mia natura. Credo che non potrei fare a meno di questo lavoro.  

Che cosa vorresti dire alle altre donne che come te hanno un talento e che desiderano coltivarlo?
Ascoltate il vostro talento e seguitelo. Siate determinate, non abbattetevi di fronte alle porte sbattute in faccia. Arriverà chi vi farà sentire incapaci e inadeguate. Metteranno in dubbio le vostre risorse, il vostro potenziale, ma voi andate avanti. Vi giudicheranno, faranno insinuazioni sgradevoli, ma voi continuate a perseverare. 
Non sai quante volte mi è stato detto "lavori perché qui sei lʼunica qui in zona", "lavori perché hai gli occhi verdi". Se dopo 25 anni lavoro ancora, una ragione ci sarà, o no? Ora collaboro con realtà prestigiose come il Mart e mi sento fierissima di questo risultato. Traguardo che è stato possibile perché ho ascoltato la mia pancia: ho seguito il mio talento. E sento di essere arrivata dove ho sempre desiderato essere. 

*https://www.linkedin.com/in/stefania-santoni7mythos/