Aggiornato il: 04 Marzo 19

L'investimento in conoscenza

tra opportunità e ritardi

di Bruno Degasperi

Benjamin Franklin diceva che “an investment in knowledge pays the best interest”, il rendimento dell’investimento in formazione è più alto di qualsiasi altro investimento. Questo lo affermava nel 18° secolo.

Possiamo dire che quanto detto dal politico e intellettuale americano sia valido anche oggi, e in Italia? La risposta è ovviamente complessa e, soprattutto, in chiaroscuro.

Nel suo ultimo rapporto annuale sull’istruzione (Education at a glance), l’OCSE calcola, comparando costi e benefici monetari, il “tasso di rendimento” dell’investimento in capitale umano. Ne emerge, per esempio, che in Italia l’acquisizione di una istruzione universitaria rende meno che nella media degli altri paese OCSE, sia per gli uomini che per le donne.

In altre parole, vuol dire che a una quota particolarmente ridotta di persone in possesso di laurea non corrisponde, come si potrebbe supporre, un divario più elevato tra il reddito dei laureati e il reddito dei diplomati. Trattandosi di un fattore relativamente scarso, al possesso di un’istruzione medio-alta dovrebbe corrispondere un rendimento, in termini retributivi, più elevato. Invece, almeno in Italia, non è così. 

Eppure qualcosa nel mondo del lavoro sta cambiando. Si tratta della crescente polarizzazione tra lavoratori altamente qualificati, e con redditi elevati, e lavoratori scarsamente qualificati con redditi medio-bassi. Dagli anni Ottanta infatti è in aumento la domanda sia dei lavori a bassa qualifica, comportanti mansioni routinarie, o manuali o fortemente standardizzate, sia di quelli a più alta qualifica, richiedenti competenze tecnico-specialistiche o manageriali. Questo a scapito di quelli intermedi, che possono essere più facilmente replicati da un computer. Il progresso tecnologico comporta anche questo, ed è necessario fare i conti anche con esso.

La via sembra essere stretta. Potremmo dire che anche se in Italia studiare “paga” in misura minore rispetto ad altri paesi, non ci si può esimere dal prendere in seria considerazione questa polarizzazione che lentamente cresce da trent’anni a questa parte. Una polarizzazione che investe i lavoratori di tutte le età e che comporta una seria riflessione non solo sull’istruzione delle nuove generazioni ma anche sulla formazione degli adulti. Anch’essa “Cenerentola” nei numeri, eppure abbiamo un’evidenza palmare di come le imprese che beneficiano di un benessere duraturo sono quelle capaci di investire in conoscenza, ricerca, sviluppo, formazione dei dipendenti, capacità innovative del management.

Recentemente è stato stimato (dati Accenture) che l’incapacità di colmare il divario fra le competenze richieste, soprattutto in ambito digitale, e quelle presenti, potrebbe far sì che 14 economie del G20 rinuncino a 11.500 miliardi di dollari, una parte considerevole della crescita del Pil promessa dagli investimenti in tecnologie intelligenti nei prossimi dieci anni. Il paradosso di investire sull’innovazione senza dedicare altrettanta attenzione all’acquisizione di competenze per sostenerla e realizzarla. 

La formazione degli adulti è quindi un formidabile strumento di crescita per le persone e le organizzazioni, ed è per questo che formatori e gestori di processi formativi hanno un’elevata responsabilità.
Innanzitutto, nel garantire autorevolezza e credibilità e nel riscoprire una funzione, che non è solo quella di essere un servizio di nicchia, ma concreto fattore di crescita.

Come si diceva in premessa, la risposta è in chiaroscuro ma riteniamo si debba rispondere che sì, l’investimento in formazione paga. Nella consapevolezza che non si tratta di un automatismo ma di una risposta da costruire responsabilmente e giorno per giorno con i fatti.